THE FOUR SACRED SECRETS – INTRODUZIONE
Con Preethaji eravamo in viaggio al lago Big Bear nella California del sud, con nostra figlia Lokaa, di cinque anni all’epoca dei fatti. Era la primavera del 2009. Era una vacanza da tempo attesa e ci trovavamo tutti insieme in cima a una montagna a goderci la bellezza intorno a noi.
Il vasto lago di acqua cristallina sembrava non avere fine. Macchie di verde e di bianco riflettevano la terra e il cielo. Venature argentate e dorate perforavano la superficie immacolata. Mi sentivo euforico per la fresca, pungente naturalezza che mi riempiva i polmoni: eravamo preparati a un cambio di temperatura ad alta quota, ma non ci aspettavamo che l’aria proveniente dal lago, alimentato dalla neve, fosse tanto pungente. Il mio corpo e la mia mente erano completamente desti.

Dopo poco, Lokaa, eccitata, ruppe il silenzio: “Nana, nana, guarda!”, usando la parola dell’India meridionale per “papà”. Tirandomi il braccio, indica il porticciolo, dove due moto d’acqua stavano attraccando. Preethaji e io ci siamo guardati, come potevamo ignorare tanto entusiasmo?
L’eccitazione di Lokaa era davvero contagiosa. Anche l’istruttore di sci acquatico aveva un’aria gioviale. Dopo averci illustrato le basi, ci chiese se volessimo i giubbotti salvagente. Ce lo ha chiesto in modo così casuale, che di getto ho risposto subito di no, che non ce n’era bisogno. Nemmeno mezzo minuto dopo Preethaji mi dà un colpetto e mi convince a prenderli. Certo che ne avevamo bisogno: di colpo mi sono reso conto che Preethaji non sa nuotare! Dunque abbiamo preso i giubbotti e siamo saliti sulla moto.
Mentre accendevo il motore, l’istruttore si sforzava di darci le ultime istruzioni, cercando di sovrastare il rumore del motore e gli strilli di Lokaa. Urlando, ci ha accennato a non correre troppo e non prendere curve brusche. Poi, giusto mentre partivamo, ci ha strillato: “se vi ribaltate, dovete tirarvi su entro sette minuti, o affonderete”. E così siamo partiti.
Tra le nostre risa, Lokaa mi istigava ad andare più veloce. Avevamo già coperto una discreta distanza, eppure sembrava che potessimo andare avanti ancora per miglia e miglia.
Volevo regalare a Preethaji e a Lokaa un’esperienza memorabile, così ho un po’ esagerato. Ho cominciato a fare zig-zag cercando di disegnare una bella onda. E invece la moto si è ribaltata e ci siamo trovati sbalzati fuori.
Tutto è diventato nero. Ci trovavamo tutti sott’acqua. La paura si è impossessata del mio corpo quando ho sentito Preethaji che cercava disperatamente di attaccarsi ai miei vestiti. Dove era Lokaa? Dimenandomi, sono riuscito a raggiungere la superficie e ho visto entrambe affiorare grazie ai loro salvagente ben allacciati.
Preethaji aveva bevuto acqua nei polmoni e faticava a respirare. Mentre lei cercava di ritrovare equilibrio, la mia mente errava selvaggiamente. E se le fosse successo qualcosa? O a Lokaa? Sono passati diversi minuti prima che mi ristabilissi e potessi confortarle. Lokaa si è ripresa più velocemente di Preethaji. “Kanna, come facciamo a rigirare questo coso?”, mi grida Preethaji.
Le parole dell’istruttore mi risuonavano nelle orecchie al crescere della tensione. Ci avvicinavamo al termine dei sette minuti. Sicuramente la moto sarebbe affondata da un momento all’altro.
Eravamo bloccati al largo nell’acqua gelida e con i telefoni fuori uso. Non ci è voluto molto per pensare che uno che era stato tanto superficiale circa le procedure di emergenza si potesse essere dimenticato di noi. E se nessuno viene ad aiutarci?, ho pensato nel panico. Saremmo congelati nell’acqua ghiacciata. Pur non riuscendo a ribaltare la moto, per fortuna galleggiava ancora. Avevamo comunque bisogno di qualcuno che venisse a soccorrerci, ma per il momento sembrava che il peggio fosse passato.
Nel frattempo la mia mente continuava a girare all’impazzata. Non riuscivo a smettere di imbestialirmi per le istruzioni insufficienti che ci avevano dato al porto; volevo rimproverare l’istruttore, ero arrabbiatissimo. Allo stesso tempo non riuscivo a capire perché la cosa fosse successa. Le domande si affastellavano caotiche nella mia testa.
Perché è accaduto proprio alla mia famiglia? È forse il risultato di un karma negativo? È il destino di qualche piano cosmico? Qual è la lezione che devo imparare da questa esperienza?
Nessuna risposta che riuscissi a trovare mi faceva stare meglio. Se avessi potuto dare la colpa al karma, a un piano cosmico, o a qualche lezione da imparare, sicuramente saperlo avrebbe dissolto la mia rabbia e mi avrebbe portato un po’ di pace, e avrei smesso di farmi domande. Al contrario, le domande e la rabbia continuavano imperterrite.
Che sta succedendo, esattamente? Che cosa è questa sofferenza che sento dentro?
Non ho mai avuto difficoltà a farmi domande importanti. In verità, possiamo dire che sono stato educato proprio così: mio padre, Sri Bhagavan, è un insegnante spirituale, fondatore della Oneness, un’organizzazione spirituale. Al cuore del movimento c’è il fenomeno del diksha, la benedizione di unità. Quando mio padre era ancora un bambino, gli appariva la visione mistica di una gigantesca sfera di luce dorata, che lo induceva a recitare dei mantra e meditare per la liberazione dell’umanità. Successivamente ha fondato una scuola in cui gli studenti, insieme alla formazione convenzionale, imparavano l’arte delle relazioni gioiose. Anche io ero uno studente di quella scuola.
Quindici anni dopo che le visioni avevano lasciato mio padre, si sono presentate a me spontaneamente. Avevo undici anni quando ho cominciato a sperimentare stati di coscienza di cui non avevo mai sentito né provato prima. E questi stati all’improvviso hanno cominciato a trasferirsi da me ai miei amici e compagni di scuola.
Quando un giorno mio padre mi ha chiesto se potevo consapevolmente trasferire l’esperienza agli altri, ho risposto di sì. Quando l’ho fatto, anche gli altri hanno cominciato ad avere la sessa visione della sfera di luce dorata.
Alcuni la chiamavano Dio, altri amore, altri sacra.
A causa di questa infanzia un po’ particolare, non ho mai avuto remore a interrogarmi sui misteri della vita. Eppure nessuna domanda filosofica era mai stata tanto urgente.
Sfortunatamente nessuna delle spiegazioni che riuscissi a trovare riusciva a farmi sentore meglio mentre giacevo steso nell’acqua gelata. Nessuna riusciva a riportarmi alla calma. Mi sentivo avvampare il viso al pensiero dell’inutile istruttore, che non ci aveva detto come capovolgere la moto se ci fossimo ribaltati. Come aveva potuto trascurare un’informazione tanto importante? Come si può essere tanto trascurati?
Non riuscivo proprio a liberarmi della rabbia. Continuavo a pensare in tondo. Mi faceva strano perché fin da bambino non avevo mai lasciato che un disturbo si radicasse in me.
Estremamente a disagio per questo caos dentro di me, ho rivolto la mia attenzione interiormente con profonda determinazione. In un attimo la verità si è materializzata davanti ai miei occhi, nuda e cruda. Mi sono reso conto che non ero arrabbiato con l’universo, con la vita, o con l’istruttore: ce l’avevo con me stesso. Del resto, nell’eccitazione, giù al porto avevo dichiarato che non avevamo bisogno dei giubbotti salvagente e, se non fosse stato per l’insistenza di Preethaji, avrei potuto perdere la mia famiglia quel giorno.
Vedere la mia verità ha completamente messo a tacere il mio caos interiore.
Ciò che è accaduto successivamente può essere descritto solamente come un grande processo di svuotamento.
Qualunque rifugio abbia mai potuto trovare in momenti di sofferenza -qualunque idea metafisica nella quale abbia mai trovato ristoro se colto da infelicità- era scomparso. Comodità e sicurezza non erano più un’opzione.
Stavo correndo a tutta velocità verso…cosa? Non lo sapevo. Nell’immenso silenzio interiore ho realizzato la vera natura di tutte le sofferenze provate fino a quel momento. Una realizzazione si è irradiata attraverso tutto il mio essere: la causa ultima di tutta la sofferenza è il pensiero ossessivo auto-centrato.
Non era solo la mia sofferenza che avevo finalmente compreso: stavo essendo testimone della sofferenza di tuta l’umanità. In quel momento ho realizzato inequivocabilmente e chiaramente la ragione prima dell’infelicità dell’uomo: essere costantemente preoccupato di me, me, me. Preoccupazione, ansia, tristezza, scontentezza, rabbia, solitudine, nascono tutti quando il pensiero gira costantemente intorno a sé stessi.
Ogni fibra del mio corpo pulsava con la realizzazione che l’unico modo di liberarci dallo stress e dall’infelicità è rompere l’incantesimo della preoccupazione ossessiva per sé stessi.
A questo punto mi sono sentito svanire come “sperimentatore”. Non c’era più un uomo che soffriva o non soffriva, né c’era più qualcuno a creare la sofferenza. Non c’era più Krishnaji in attesa che qualcuno venisse a salvare la sua famiglia. Non c’era un sé isolato.
Ero senza limiti. Ho sentito un grande senso di unione con Preethaji e Lokaa e con tutto intorno a me. Non sentivo distinzione tra loro e me, tra la terra e il mio corpo, nato da madre terra.
Mentre guardavo più da vicino il corpo che chiamavo mio, ho visto mia madre, mio padre, i miei nonni, e i loro genitori, tutte le generazioni che mi avevano preceduto. Riuscivo a vedere tutta l’umanità sin dagli albori come miei antenati.
Non c’erano esseri separati, cose separate, eventi separati, forze separate. Ho visto dentro di me la vastità dell’oceano e del cielo e tutto ciò che c’è in mezzo. Io ero l’universo. L’intero universo era un organismo gigantesco, un solo grande processo in cui ogni cosa era tutte le altre cose.
Ciò che esisteva era l’Uno. Il Sacro. Ciò che nella cultura Hindu chiamiamo Brahman, o che alcuni chiamano Divino.
Ma non stavo sperimentando il Divino come separato da me.
Non c’era separazione. Non c’era il tempo.
L’intera esperienza mi è sembrata durare una vita, benché siamo rimasti in acqua appena venticinque minuti prima dell’arrivo della squadra di soccorso. Mentre aspettavo che la mia famiglia fosse portata in salvo, una grande passione si era risvegliata in me: desideravo aiutare tutti gli individui a provare quello che avevo provato io, aiutarli a diventare liberi.
Voglio che ci liberiamo dall’idea che siamo separati gli uni dagli altri. Liberi dalla guerra che sentiamo dentro di noi e con il momendo intorno a noi. Liberi dalla sofferenza che rende le nostre vite piccole e insignificanti.
Sapevo che una vita bella vissuta in uno stato bello dell’essere era il destino di ciascuno. Avevo trovato la via di uscire dalla sofferenza. La strada era chiara.